Io Sono Io Sono Io Sono Io Sono 

2011

Milano
a cura di: Vittorio Sgarbi, Oliver Orest Tschirky
Milano - Fondazione Stelline
Monica Marioni parla chiaro, come non sempre gli artisti fanno, o sono in grado di fare, specie quelli più intellettualizzati.
Per lei, l’arte mantiene sempre un significato primario, inderogabile: è il campo espressivo dell’individualità. Non si tratta di una scoperta, naturalmente, ma di una presa di coscienza comunque importante, lucida e onesta, tan- to più apprezzabile in tempi di furbe mistificazioni in cui l’individualismo espressivo più gratuito, quello che spadroneggia nelle rassegne più à la pa- ge, gioca spesso a farsi credere arte di preminente vocazione sociale, quasi si vergognasse di non esserlo. Siamo, più di ogni altra cosa, animali psichi- ci, ognuno differente dall’altro, e questa differenza è alla base del modo con cui concepiamo la nostra individualità: l’arte serve non solo a ricordarcelo, ma a fornici un impareggiabile strumento con cui poter esaltare al meglio la nostra componente individuale, trovando l’antidoto alla regola statistica del mondo per cui dovremmo essere tutti considerati numeri della stessa specie. Con questo, non si vuole dire che un’arte incentrata sull’individualità debba essere per forza antitetica ai numeri, ovvero alla dimensione dell’ampia con- divisione collettiva. Il pensiero della Marioni è chiaro anche su questo pun- to. L’io è immensamente più interessante dell’altro, ma sono gli altri a fa- re la storia, diceva il giovane Pasolini. Ergo, se non si vuole ridurre l’ar- te a esercizio onanistico, di carattere strettamente privato, con gli altri ci si deve confrontare. Anche perché gli altri non sono affatto la negazione dell’io, ma altre individualità, altri universi interiori che l’artista non ha l’obbligo di conoscere, e forse neanche di tenere in debito conto, ma di cui non potrebbe certo contestare l’esistenza.




In ciò, la poetica della Marioni dimostra di riferirsi a un’accezione aggior- nata della modernità, al passo con gli anni Duemila, epoca in cui tutti siamo contemporaneamente oggetti e soggetti di comunicazione globale. La Marioni, cioè, non ha la presunzione di voler imporre la sua individualità – spiccata e geniale a priori, altrimenti non si sarebbe artisti – su quella di una massa teoricamente indistinta e amorfa, secondo una visione tipica del Romanticismo, alla base anche di tanta Avanguardia novecentesca, per non dire dei suoi cascami che ancora ci ritroviamo fra i piedi molesti, spesso e volentieri. Quello della Marioni è un atteggiamento più moderato, in fondo più umile: posso indagare da vicino e conoscere bene solo me stessa, per questo me ne occupo. Se Io Sono, fosse anche fortissimamente, come la Marioni ci tiene ad affermare, è perché altro non si sarebbe in grado di essere.
Nel dichiararsi esploratrice di se stessa per forza di cose più ancora che per vocazione, la Marioni finisce per ammettere anche due conseguenze di quel presupposto: da una parte, la stretta relazione del suo modo d’intendere l’arte con l’ambito di tradizionale competenza della psicologia e della psicanalisi, secondo un rapporto che la nostra civiltà ha inteso fin dai tempi in cui Freud non era neanche in mente Dei; dall’altra, l’essere l’investigazione interiore, pensando alla collettività quale insieme di unità psicologicamente distinte, come prima si è accennato, un metodo conoscitivo che può benissimo essere messo a disposizione, per analogia, di qualunque altra individualità che intenda adottarlo.

E in effetti, vedendo le opere della Marioni, ci viene spontaneo constatare la marcata individualizzazione del panta da lei allestito, ma, ugualmente, anche il fatto che niente di ciò che viene tirato in ballo dalle sue operazioni estetiche, nelle suggestioni visuali come in quelle concettuali, risulta essere del tutto estraneo a noi stessi. Come mai, e soprattutto, di chi il merito? Indubbiamente, dell’estrema duttilità espressiva della Marioni, non solo per il fatto che l’artista ci ha abituati a non tralasciare alcun mezzo per visualiz- zare le sue fantasie creative, dalla pittura alla fotografia, dal video alla performance, dall’installazione all’allestimento scenico, ognuno affrontato con una chiara percezione della sua specificità, eppure riuscendo a mantenere una coerenza innegabile nel dispiegarli secondo un unico disegno diffuso, ma anche perché il più delle volte le sue elaborazioni non sono invenzioni totalmente ex abrupto, attingendo a motivi e registri estetici che fanno parte del nostro immaginario collettivo, quello storico come quello contemporaneo.










Ne deriva una concezione dell’opera, tanto più quando in forma di totalità correlata di opere, come articolazione simbiotica di segni e linguaggi differenti, in una varietà infinita di soluzioni, che ora possono essere organizzati come accumulazioni stratificate anche in senso fisico, per esempio negli intriganti assemblages in cui la Marioni accoppia lacerti di arte antica a libere partiture informali in cui la gestualità espressiva sembra essere determinata non dalle sole mani, ma da una persona nella sua interezza immateriale; ora, vedi il caso di Io sono, come configurazione di un ambiente, fuori da un tempo reale, che sa un po’ di cappella, un po’ di più laica Wunderkammer, con al centro un’arena, lo spazio rituale più connotato, terreno ideato per accogliere una danza tribale propiziatoria, dotato di un monolite nel mezzo, rimanenza archeologica di chis- sà quale civiltà passata o futura, ma anche ipotetico ring di sumo dove ognuno potrebbe benissimo proiettare le lotte conflittuali, fra io e non-io, maschile e femminile, istinto e ragione, desiderio e repulsione, santità e dannazione, che le rappresentazioni laterali, novelle pale votive, mirano a sottintendere, dissacrando il clichè del glamour fotografico, dominante nella comunicazione di massa dei nostri tempi, a colpi di adulterazioni grafiche e fisiologiche, anche mostruose, che incrinano irrimediabilmente la fiducia nell’idealità, facendo emergere, al suo posto, un’ossessione primordiale, oscura, quella dell’imperfezione, che forse è figlia di una civiltà malata di eccessivo estetismo.

Seguendo, nel tempio dell’Io sono, le tracce delle sue ossessioni, scoprendosi improvvisamente un angelo precipitato nel limbo delle proprie intrinseche contraddizioni, la Marioni cerca certamente se stessa, ma non si è affatto preclu- sa di poter trovare anche qualcosa di noi, o meglio, qualcosa che il nostro Io Sono, un Io non Sono rispetto al suo, possa comunque avere in comune con esso. È questa, a dispetto, se si vuole, dell’individualismo così tanto esibito dalla Marioni, la “socialità” della sua arte, più autentica ed efficace di tante altre: il farci, cioè, non i poveri sudditi dell’ennesima, inutile tirannia di uno spirito maledettamente narciso, ma partecipi di una repubblica delle anime in cui tutti, malgrado i ruoli differenti, ci sentiamo cittadini con uguali diritti. Anche questa è una lezione che va riconosciuta a Monica Marioni, morale, direi, non meno che artistica.

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